La Cena è del Signore
La questione dell'intercomunione tra cattolici e protestanti
(Bruno Corsani, Riforma,
maggio 2000)
Nel numero di Pasqua, Giuseppe Platone ha descritto in anteprima l'organizzazione del Kirchentag 2003 che si svolgerà a Berlino e avrà carattere ecumenico.
E
si domanda: come funzionerà, in questo quadro ecumenico, la Cena conclusiva
che di solito si svolge in un grande stadio cittadino? Poche settimane fa
Gino Conte ha riassunto con lucidità,
su Riforma, gli ostacoli che vengono
opposti a ogni ipotesi di intercomunione fra evangelici e cattolici: dal rifiuto
di dare la Santa Cena (o Eucaristia),
al rifiuto di riceverla al di sopra
dei confini della propria confessione religiosa. Difficoltà che non vengono
solo dalla Chiesa cattolica, ritenuta più rigida, ma anche dagli ambienti
evangelici (forse più spesso dai singoli che dalle istituzioni).
E'
vero che alcuni formulari di liturgia valdesi implicano una Santa Cena «aperta»,
per esempio quello contrassegnato dalla sigla «Isaia A», dove l'invito è formulato
così: «Il Signore dice: Chiunque ha fame, chiunque ha
sete, venga e sarà saziato». O anche quello chiamato «Marco C»: «Gesù
ci invita. Tutti coloro che riconoscono la sua voce accolgano il suo invito
e partecipino alla comunione con lui e gli uni con gli altri, per formare
un solo corpo». Ma non so se queste formule sono abbastanza esplicite e se
sono usate e ascoltate consapevolmente.
Vorrei
contribuire allo studio di quest argomento con una riflessione su Marco 14,
13-18: «Gesù mandò due dei suoi discepoli e disse loro:
Andate in città, e vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d'acqua:
seguitelo; dove entrerà, dite al padrone di Casa: Il Maestro dice: Dov'è la
stanza in cui mangerò la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà una
grande sala ammobiliata e pronta. Lì apparecchiate per noi. I discepoli andarono
e trovarono come egli aveva detto, e prepararono per la Pasqua».
La
figura di questo anonimo padrone di casa mi sembra simbolica del ruolo delle
chiese al momento della celebrazione della Cena. Perché la Cena è del
Signore: è lui che imbandisce la mensa, è lui che invita, è con lui che
i credenti cenano (anche se la «cena»
è ridotta simbolicamente a un pezzetto di pane e un sorso di vino), è l'accoglienza
alla sua mensa che esprime il dono della vivificante comunione con lui (dalla
quale discende anche, come conseguenza, la comunione fra i partecipanti).
La Cena è del Signore, non è la
Cena di una parrocchia o di una confessione religiosa. Queste non dovrebbero
avere altra funzione che quella di mettere a disposizione, come l'anonimo
abitante di Gerusalemme, la casa, il locale, le stoviglie, il pane e il vino.
L'incontro deve avvenire tra i credenti e il Signore, non tra i credenti e
l'istituzione ecclesiastica.
Non
nego che si possa preferire incontrare il Signore, e cenare con lui, in una
casa piuttosto che in un'altra (perché più familiare, o perché i commensali
sono più conosciuti), ma il rifiuto di dare
e di ricevere la Santa Cena non dovrebbe più
esistere, se l'invito viene dal Signore e la Cena è sua, non nostra. Per il
resto, come dice l'apostolo Paolo, «ciascuno esamini
se stesso, e così mangi del pane e beva dal calice, poiché chi mangia e beve
mangia e beve un giudizio contro se stesso, se non discerne il corpo del Signore»
(I Corinzi 11, 28s.).